Non leggete questo blog

Non leggete quello che scrivo se non siete disposti ad accettare che il dolore esiste, che il dolore è qui e che rischia di sfiorarvi e forse di travolgervi.

Non leggetelo se non siete disposti a tacere.
Non ditemi mai "non DEVI fare così, non DEVI dire questo" .
Che ne sapete voi di quello che ho dentro? Che ne sapete voi di cosa vuol dire doversi alzare dal letto ogni mattina per affrontare il vuoto, il lutto, la mancanza irrimediabile?

Non leggetelo se siete convinti che la vita sia solo rose e fiori e non volete vedere il nero.

Non leggetelo se volete solo distrarvi.

Non leggete le mie parole se pensate di dirmi "la vita va avanti, devi vivere per te".

Qui vi troverete sbattuto in faccia il dolore soffocante, quello che impedisce di respirare.
Qui vi troverete sbattuto in faccia il desiderio impellente, disperato, di morire per smettere di soffrire.
Qui vi troverete sbattuto in faccia il lutto cupo, devastante. Quello che impedisce di indossare i colori, non perché sia una convenzione sociale, ma perché il corpo li respinge, perchè il corpo può accettare solo il nero, il grigio e il bianco.

Qui vi troverete sbattuta in faccia tutta la mia rabbia per l'ingiustizia di questa morte. Per quello che non gli è stato concesso. Per quello che ci è stato tolto.

Non leggetemi se non siete disposti alla pietas, al cordoglio. Quelli veri.

Tutto questo che avete appena letto l'ho scritto nei primi anni del lutto, quando c'erano solo sofferenza, mancanza, rabbia. Adesso, attraverso un complesso e articolato percorso di elaborazione, di maturazione e di crescita personale, il manifesto è da aggiornare: Non leggete se credete che chi è morto è sparito o non esiste più , non leggete se pensate che chi amate vi abbia abbandonato, non leggete se non siete capaci di aprire la mente anche a ciò che non conoscete. Non leggete se non volete vivere pienamente la vostra nuova vita, quella dopo il lutto.
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martedì 12 agosto 2014

Christian Bobin, Resuscitare

“Christian Bobin risiede in una modesta abitazione di Le Creusot (città che non ha mai lasciato), adeguamente ubicata in una vecchia caserma dei pompieri costruita negli anni cinquanta. Egli vive nella solitudine così particolare dei guardiani dei fari, dei custodi delle chiuse e dei casellanti (…) In quanto tale la sua solitudine potrebbe sembrare egoista: essa, in realtà, è proporzionale all’attenzione quasi mostruosa che questo scrittore nutre nei confronti degli esseri viventi e delle cose. Conoscendo la gente meglio di chiunque altro, deve restarne distante, per non soccombere alla straordinaria empatia che gli impone il suo cuore. Non potendo sposare tutti, resta solo. Per capirlo è sufficiente immaginare una persona che diventa tutto quello che vede”. Così scrive Lydie Dattas a proposito dell’autore.
Nato nel 1951 a Le Creusot, Christian Bobin è poeta e pensatore molto conosciuto in Francia, autore di un’opera in cui si interroga su Dio e la materia “vita” (a proposito della scrittura di Bobin è stato detto che essa è a metà tra il linguaggio dei bambini e quello dei santi, tra la semplicità e la sorpresa).
Mentre in Francia molte delle opere di Bobin sono state pubblicate da Gallimard (uno degli editori più importanti in ambito europeo), qui in Italia Christian Bobin – forse pagando il fatto di non essere “narratore” in un universo, ahimé, “narratocentrico” come il nostro – è conosciuto solo da una ristretta cerchia di lettori e solo una parte delle sue opere è stata tradotta e pubblicata da alcuni editori coraggiosi come Piero Gribaudi, Servitium, San Paolo e Anima mundi. E questo ancora una volta conferma la miopia della nostra editoria.
In molti dei suoi libri la scrittura di Bobin è frammentaria, talora diaristica. Le sue annotazioni sono brevi e non possiedono il respiro della narrazione o dell’argomentazione filosofica. Esse contengono una pagina, una frase, un’immagine, un particolare, un parola o un verbo nella cui unicità si apre un intero mondo, un abisso fatto di emozioni e illuminazioni. In taluni libri il frammento è lungo, in altri invece è breve e assume la connotazione di un pensiero aforistico dove predomina la sorpresa, la folgorazione e talora anche l’ironia e il disincanto.
Uno dei testi più aforistici- e anche più intensi – di Christian Bobin è sicuramenteResuscitare, scritto dopo essere stato fortemente segnato dal lutto: l’amica Ghislaine, madre di tre bambine; qualche anno più tardi, il padre, malato d’alzheimer. In uno dei frammenti Christian Bobin scrive: “Gli esseri viventi appaiono e scompaiono intorno a me come le colombe che escono dalle mani vuote di un mago. Ho un bel guardare queste mani con attenzione, non trovo alcuna spiegazione”. Resuscitare è allora per Bobin riconciliarsi con la propria vita e con la propria morte, riscoprire l’amore smisurato per la vita, obbedire al tempo cercando il bene nella quotidianeità: “Il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario”Sempre inResuscitare Christian Bobin scrive che “Non è stato ancora scritto quasi nulla sulla bontà, ed è per questo che alla scrittura resta un futuro immenso”. In un universo come quello aforistico dove predomina lo scetticismo, il cinismo, il sarcasmo, la misantropia e la disillusione, l’aforisma di Bobin può essere definito – andando in controtendenza – un aforisma della bontà. 
Presento al lettore italiano una selezione dei frammenti più aforistici tratti da Resuscitare. La traduttrice è Laura Majocchi che ha tradotto altri testi di Christian Bobin e ha tradotto in inglese alcuni miei aforismi.
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Christian Bobin, Resuscitare, Piero Gribaudi Editore, 2003 (aforismi scelti)
In cielo c’è una stella per ciascuno di noi, sufficientemente lontana perché i nostri errori non possano mai offuscarla.
Il giorno in cui acconsentiamo a un po’ di bontà è un giorno che la morte non potrà più strappare dal calendario.
Alla mia nascita una fata si è chinata sulla mia culla dicendomi: “Assaporerai una parte minuscola di questa vita e in cambio la percepirai tutta”.
Talvolta ascolto le voci senza lasciarmi distrarre dalle parole che contengono. In quei momenti sono le anime che sento. Ciascuna ha la vibrazione che le è propria. Certe emettono solo note stonate: bisognerebbe che un Dio ne tendesse nuovamente le corde, come un cieco che accorda un pianoforte.
Ho visto un nido in rovina in cima a un grande albero e questa vista era dolce come quella di un cuore che ha compiuto il suo lavoro.
Non c’è nulla di nascosto, è tutto lì sotto i nostri occhi, la vita passata, la vita presente e la vita futura, come tre bambine che si scambiano ridendo delle confidenze su una strada di campagna.
Leggo sulle piccole foglie gialle della betulla, che grondano pioggia e oppongono resistenza al vento che li sferza, come una lettera un po’ affrettata scritta da un Dio povero.
Gli esseri viventi appaiono e scompaiono intorno a me come le colombe che escono dalle mani vuote di un mago. Ho un bel guardare queste mani con attenzione, non trovo alcuna spiegazione.
Nello stesso momento in cui si perde qualcosa di materiale, una moneta d’oro cade nel salvadanaio della Povertà.
Ho trovato Dio nelle pozzanghere d’acqua, nel profumo del caprifoglio, nella purezza di certi libri e persino in certi atei. Non l’ho quasi mai trovato presso coloro il cui mestiere consiste nel parlarne.
La maggior parte della gente perde la propria anima quando fa ingresso nel mondo, con la stessa facilità con cui si perde un libro in un trasloco.
L’amore di certe madri è come una corda passata intorno al collo del figlio: al minimo movimento di quest’ultimo verso la vita, il nodo scivolando si stringe.
Ci sono poche parole a questo mondo che non siano segretamente velate di malinconia ed è una gioia senza pecche scoprire un’anima pura. Sono anime che somigliano ai primi libri dei bambini: contengono poche parole e sono piene di colori.
Quindici secondi di purezza lì, altri dieci secondi là: con un po’ di fortuna nella mia vita, quando la lascerò, ci sarà abbastanza purezza da costituire un’ora.
E’ più facile uccidere Dio che non un passero, ed è più facile lacerare il suo cuore che non un foglio di carta: lo sanno persino i bambini.
Mi piacciono solo gli scritti il cui autore è stato sottratto al mondo, quale che sia a ragione: un dolore infinito, una gioia senza motivo o semplicemente la sensazione di essere un estraneo in terra.
Sul bordo della finestra si è posato un passero, mi ha guardato con una curiosità non priva di beffa, chiedendosi che cosa poteva occuparmi così tanto. E’ volato via quando ha capito che si trattava della stesura di un libro.
A. e D. formavano una coppia dove ciascuno dei due, per stanchezza o per disperazione, aveva rinunciato all’amore dell’altro. Non si erano separati ricomponendo il loro amore a un livello meno elevato, nell’amore comune per i viaggi e i pezzi di antiquariato, legami certamente meno fragili e dolorosi che non l’infinita speranza dell’amore. Da allora, la vita li evitava come l’acqua di un torrente circonda senza ricoprirla una grossa pietra posta al suo centro.
Ho visto posarsi sul ramo della betulla un uccello di cui non conosco il nome, così fiammeggiante da sprofondarmi in uno stupore che è durato a lungo dopo che ha preso il volo. Ogni volta che penso a questo piccolo portatore di fuoco, mi sento nel petto il dolore di non poter dire il suo nome.
Ho appena avuto un incontro silenzioso con un bambino di dieci mesi. Ci siamo guardati negli occhi per più di un quarto d’ora. Negli occhi ci sono più parole che nei libri. Il nostro incontro era di tipo metafisico. Mi rallegravo della sua presenza e lui si stupiva della mia. Siamo giunti alla stessa conclusione che ci ha fatto scoppiare a ridere nello stesso momento.
Ciascuno di noi nasce con un compito solitario da svolgere e coloro che incontra lo aiutano a compierlo oppure gielo rendono ancora più difficile: sfortunato colui che non sa distinguere gli uni dagli altri.
Talvolta vorrei entrare in una casa a caso, sedermi in cucina e chiedere agli abitanti di che cosa hanno paura, che cosa sperano e se capiscono qualcosa della nostra comune presenza sulla terra. Mi hanno ammaestrato a sufficienza perché mi trattenga da questo slancio che, tuttavia, mi sembra il più naturale del mondo.

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