Non leggete questo blog

Non leggete quello che scrivo se non siete disposti ad accettare che il dolore esiste, che il dolore è qui e che rischia di sfiorarvi e forse di travolgervi.

Non leggetelo se non siete disposti a tacere.
Non ditemi mai "non DEVI fare così, non DEVI dire questo" .
Che ne sapete voi di quello che ho dentro? Che ne sapete voi di cosa vuol dire doversi alzare dal letto ogni mattina per affrontare il vuoto, il lutto, la mancanza irrimediabile?

Non leggetelo se siete convinti che la vita sia solo rose e fiori e non volete vedere il nero.

Non leggetelo se volete solo distrarvi.

Non leggete le mie parole se pensate di dirmi "la vita va avanti, devi vivere per te".

Qui vi troverete sbattuto in faccia il dolore soffocante, quello che impedisce di respirare.
Qui vi troverete sbattuto in faccia il desiderio impellente, disperato, di morire per smettere di soffrire.
Qui vi troverete sbattuto in faccia il lutto cupo, devastante. Quello che impedisce di indossare i colori, non perché sia una convenzione sociale, ma perché il corpo li respinge, perchè il corpo può accettare solo il nero, il grigio e il bianco.

Qui vi troverete sbattuta in faccia tutta la mia rabbia per l'ingiustizia di questa morte. Per quello che non gli è stato concesso. Per quello che ci è stato tolto.

Non leggetemi se non siete disposti alla pietas, al cordoglio. Quelli veri.

Tutto questo che avete appena letto l'ho scritto nei primi anni del lutto, quando c'erano solo sofferenza, mancanza, rabbia. Adesso, attraverso un complesso e articolato percorso di elaborazione, di maturazione e di crescita personale, il manifesto è da aggiornare: Non leggete se credete che chi è morto è sparito o non esiste più , non leggete se pensate che chi amate vi abbia abbandonato, non leggete se non siete capaci di aprire la mente anche a ciò che non conoscete. Non leggete se non volete vivere pienamente la vostra nuova vita, quella dopo il lutto.
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domenica 19 aprile 2015

Non sono morta (purtroppo)

E' da tanto che non scrivo qui, qualcuno me l'ha fatto notare, preoccupato per il mio silenzio.
Non ho scritto neppure per l'anniversario della morte: 3 anni. Non l'ho fatto non perché non avessi dentro un dolore terribile. Ma perché quest'anno il dolore era diverso, e ho cercato di capire in cosa stesse la differenza.
Ho cercato di capire se io fossi cambiata e perché.
Mi viene spontaneo il paragone con l'arto amputato del marito di A. Amputato da due anni. Adesso ha una gamba artificiale provvisoria e riesce a muoversi, non ha più bisogno della sedia a rotelle, ma lui sa che sotto i pantaloni non c'è più la sua gamba, lo vede e lo tocca ogni sera spogliandosi, ogni volta che incontra un dislivello sul marciapiede, ogni volta che trova un ostacolo che non può affrontare con una protesi.
Io forse sono come il marito di A.
Mi sono alzata dalla mia sedia a rotelle, ogni mattina mi metto quella protesi per camminare, ma so perfettamente che la mia gamba non tornerà mai più quella di prima. Che la mia vita non sarà mai più quella di prima. E lo so soprattutto quando finisco di lavorare, quando torno in una casa deserta e gelida (anche se il termometro segna che c'è caldo). Lo so quando sento parlare della famiglia, quando vedo gli altri fare i loro progetti per le vacanze, per il fine settimana o per la serata.
Io non ho più progetti.
Io non ho più voglia di fare progetti
Io non ho più voglia di vivere.
Mi alzo perché devo andare al lavoro, ma il sabato e la domenica, il più delle volte vegeto. E il mio vegetare è invisibile agli occhi del mondo.
Stasera A. vedova da tre anni mi ha chiamata in un momento di cupo dolore, tra poco è l'anniversario del suo matrimonio con N., un matrimonio felice, appagante, quieto: "quando muoio devi salire sull'altare e spiegare a tutti che per me è una liberazione, che sono felice di morire" mi ha detto, pregando ogni sera di morire.
E' la dannazione di noi che non abbiamo il coraggio di suicidarci. Demandiamo a Dio il dovere di levarci da tutto questo dolore.
Ma Dio, beffardo, non ci ascolta.

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